L’importanza dei materiali negli affreschi trecenteschi secondo Cennini.
Spesso ci siamo trovati a contemplare affreschi bellissimi e ad ammirarne i colori, le pennellate e i dettagli creati dai pittori più famosi. Magari sappiamo tutto di queste opere: la loro composizione, la durata dei lavori, le scelte stilistiche, i ripensamenti, l'intera analisi della rappresentazione. Ma conosciamo il modo in cui vennero impiegati i materiali in queste opere meravigliose? Ce lo racconta Cennino Cennini nei suoi preziosissimi scritti risalenti alla fine del XIV inizi XV secolo.
Nel suo testo, il Libro dell’Arte, Cennini ha come fine quello di formare un possibile titolare di lavori in
bottega e cantiere a capo di sottoposti, in quanto lui stesso aveva appreso
come diventare maestro da maestri di degna fama:
“[…] fui informato nella detta arte XII anni da Agnolo di Taddeo [Gaddi] da Firenze, mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni ventiquattro; il quale rimutò l’arte del dipingere di grecho in latino e ridusse al moderno, e ebbe l’arte più compiute ch’avessi mai più nessuno.”
Citato come massimo esponente della pittura del tempo, Giotto nel libro di
Cennini diventa caposaldo e figura da imitare per coloro i quali vogliano
intraprendere il mestiere di maestro, poiché dopo di lui erano impensabili
ulteriori innovazioni nel campo pittorico. Il testo perciò guida il lettore
secondo sequenze specifiche per poter condurre con “modo e ordine” il lavoro
svolto da più uomini: a ciò segue la conferma materiale degli affreschi
trecenteschi con la loro organizzazione uniformante dei lavori, condotti da
diversi uomini impiegati in diversi ruoli.
Ciò che andremo ad osservare in questo breve scritto è come Cennini parla dei
materiali impiegati nel cantiere della pittura murale ed il loro utilizzo.
Per un risultato ottimale della pittura a fresco è indispensabile l’uso di
materiali preparati con cura esemplare, poiché anche un minimo errore nella
composizione di questi porterebbe al fallimento dell’intero lavoro. Anche in
questo caso viene in soccorso Cennini con le sue dettagliate indicazioni nel
capitolo LXVII de Il Libro dell’Arte:
“El modo e ordine a llavorare in muro, cioè in fresco, e di color[ir]e e incarnare viso giovinile”.
Prima di tutto va ricordato che la pittura a fresco è definita tale per la
sua stesura sopra l’intonaco ancora umido, definito comunemente “fresco”. La
preparazione corretta dell’intonaco era basilare e funzionale alla pittura, in
quanto una disattenzione nel mescolare, diluire e far riposare calce e sabbia
porterebbe al rigonfiamento della stessa una volta stesa ed asciugata sulla
superficie murale.
Il beneficio dello stendere i colori sull’intonaco ancora fresco riguarda la
maggiore durabilità dovuta alla carbonatazione dei pigmenti a contatto con la
calce: ciò permette una compenetrazione del colore al supporto e non una
semplice adesione che potrebbe sgretolarsi con più facilità nel tempo.
I colori stessi andavano preparati a terra prima di iniziare il lavoro e non
composti direttamente sulla tavolozza, date le grandi superfici che dovevano
essere ricoperte in modo del tutto uniforme per non compromettere il risultato
finale. La composizione dei colori era poi alquanto scientifica, poiché il
valore tonale cambiava dall’intonaco umido all’intonaco asciugato: perciò le
parti che costituivano le tinte finali dei vari pigmenti dovevano essere sempre
identiche per non alterare le tonalità utilizzate nei vari giorni di lavoro.
L’errore poteva essere corretto solamente con la distruzione dell’intonaco dove
si presentava lo sbaglio, e quindi ricominciare dall’inizio.
Proprio per evitare inconvenienti di difficile riparazione, Cennini
dedica molti capitoli alla preparazione dei colori e al loro utilizzo, poiché
alcuni posso avere reazioni diverse in base al contatto con il supporto
adoperato e alterare di conseguenza il risultato finale.
Riguardo al dipinto a fresco è da aggiungere la consuetudine di operare
finiture dopo l’asciugatura dell’intonaco, usando colori che Cennini indicava
da non impiegare a fresco per la loro instabilità in determinati episodi: ma
tale instabilità avveniva ugualmente nonostante gli accorgimenti degli artisti,
poiché l’intonaco in situazioni particolari dovute al luogo specifico di
stesura può presentare umidità residua – infiltrazioni, condense, ristagni o
eventi atmosferici.
Un colore che il Cennini segnalava da non andar mai utilizzato nella pittura
murale – né a fresco né a secco – era la biacca, la quale anneriva sempre dopo
il suo impiego; per questo veniva saltuariamente utilizzata per piccole
decorazioni o correzioni.
Singolare infatti è il suo utilizzo nell’intera pittura più antica della
basilica inferiore di Assisi, ad opera del Maestro di San Francesco, e parte di
quella superiore: tutto il transetto e nella navata in modo più puntiforme.
Questa anomalia di applicazione è stata spiegata ipotizzando l’esigenza
di finire i lavori il prima possibile, dato la pittura a secco è più rapida e
crea meno difficoltà.
Nella pittura murale medievale le principali finiture a secco riguardavano gli
azzurri, i quali consistevano nel lapislazzulo e nell’azzurrite. Dato il loro
costo elevato dovuto alle pietre semipreziose impiegate, per risparmiare si
stendevano prima a fresco dei colori di preparazione, come un rosso violaceo
che
Cennini definisce “morello”, poi per far aderire il sottile strato di azzurro all’intonaco asciutto venivano utilizzati collanti
organici – Cennini indica il rosso d’uovo.
Altri pigmenti a cui era riservata la stesura a
secco a causa della loro elevata dispendiosità erano l’oro e l’argento, i quali
insieme all’azzurro venivano applicati a richiesta del committente e solamente
se in basso non era già iniziato il lavoro a fresco: questo accorgimento era
fondamentale per evitare scolature o cadute accidentali di colore che potessero
compromettere il risultato e per non togliere la luce a chi lavorava nel
ponteggio sottostante.
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